venerdì 11 gennaio 2013

STEVEN WILSON - The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) (2013)


Il terzo album in studio da solista di Steven Wilson segna alcune novità. Innanzitutto è la prima volta che Wilson non si serve di vari session man come ospiti in singoli brani, ma tutto il disco è suonato da una vera e propria band (della quale ho già accennato). Quattro di loro - Marco Minnemann (batteria), Nick Beggs (basso), Adam Holzman (tastiere), Theo Travis (flauto e sax) - hanno partecipato al tour di promozione di Grace For Drowning, in più si aggiunge la chitarra esperta di Guthrie Govan (forse consigliato da Minnemann con il quale condivide il progetto The Aristocrats). Poi c'è la presenza del leggendario Alan Parsons come ingegnere del suono, nel cui studio di Los Angeles il disco è stato registrato in pochi giorni nel settembre scorso.

Un lavoro, quindi, che vede fin da subito impegnata tutta la band e non il solo Wilson che a più riprese diluisce il tutto in varie sessioni di registrazione. Un modus operandi che probabilmente ha ravvicinato Wilson alla metodologia Porcupine Tree, anche se questo album, ancora una volta come successo per Grace For Drowning, prende le distanze dal suono degli ultimi porcospini. E questo è già di per sé un valore aggiunto, poiché si deve ammettere che questa "pausa di riflessione" che Wilson si è preso dalla sua creatura è stata una ventata d'aria fresca per il proprio repertorio, un ritorno alla genuinità della sua musica.

Come sappiamo Steven Wilson ha maturato negli anni un'autorevole tecnica in materia di lavoro in studio, quindi il coinvolgimento di Alan Parsons dietro il banco di regia non può che essere la ciliegina sulla torta per un'opera che sicuramente non avrebbe snaturato dal risultato finale. E' come una fotografia ben definita e messa a fuoco alla quale viene aggiunta una risoluzione ottimale.

La vera sorpresa è forse rappresentata proprio dalla presenza di un chitarrista virtuoso come Guthrie Govan. La chitarra è sempre stata uno strumento centrale nella musica di Steven Wilson che raramente ha coinvolto in studio altri chitarristi oltre a lui. Tuttavia Wilson tiene a freno l'esuberanza di Govan ed è proprio quest'ultimo che comprende e sa calarsi, adattandosi, in un ambito progressive distante, ma non poi così tanto, dalla sua fusion.

Detto questo, The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) può essere considerato il proseguimento naturale di Grace For Drowning? Sicuramente si. Le recenti influenze crimsoniane, le pieghe dai sapori jazz rock e le mutuazioni dal prog anni '70 sono ancora tutte qui, protagoniste indiscusse di un nuovo colpo da maestro di Wilson. Delle sei tracce che compongono l'opera, le tre che superano i 10 minuti hanno un impatto semplicemente devastante. Esse danno l'impressione di essere delle jam strumentali alle quali sono state aggiunte delle parentesi cantate. Prese sotto questo aspetto, la sola potenza delle sezioni strumentali è tale da spazzare via dieci anni (e forse anche quindici) di rock progressivo moderno, che sia neo-sinfonico-metal o quello che volete voi. Qui non ce n'è per nessuno: inchinatevi di fronte a Steven Wilson, è lui il Re del prog e ce lo ribadisce con tre pezzi dalla statura immensa. Una grossa parte del merito, non dimentichiamolo, va anche ai musicisti che Wilson ha avuto la lungimiranza di coinvolgere, aggiungendo delle parti soliste ineccepibili. Gli altri pezzi sono a modo loro interessanti, ma non altrettanto imponenti, facendo di The Raven un album bello e intenso, ma comunque non propriamente perfetto.

In Luminol (già presentata in anteprima nell'ultimo tour) il corposo muggito del basso di Beggs è la colonna portante di buona parte dell'impalcatura su cui poggiano il pezzo e il nervoso riff principale. La parte strumentale si spiega tra progressioni di accordi chitarristici e febbrili fraseggi di piano elettrico. A circa 1/3 del brano tutto si placa ed entra in scena il cantato di Wilson in perfetto "Porcupine Tree style". Questo tema è utilizzato anche per un gustoso assolo di piano molto jazzy. Poi, in un crescendo di chitarre elettriche e mellotron, fa capolino l'ombra dei Genesis, una band la cui influenza non ha mai rivestito un ruolo rilevante nell'estetica wilsoniana e che ritroveremo altrove in questo disco.



The Holy Drinker è forse il pezzo migliore della collezione, i groove del piano elettrico imbastiscono un'atmosfera dark e da rock classico. Nella parte strumentale si trova di tutto: mellotron e solismi di sax e flauti crimsoniani (più virtuosi che mai), l'organo solenne degli ELP e quello sepolcrale dei Van der Graaf. The Holy Drinker è un po' la Remainder the Black Dog di The Raven, ovvero la traccia che fa uscire il progger di razza che è in Wilson.

Altro pezzo da brividi è The Pin Drop, breve ma intenso - sorvolando sul fatto che l'arpeggio principale è molto simile a quello di Water Under the Bridge di Kevin Gilbert. La voce di Wilson canta inusualmente su un registro per lui più alto del solito, la sezione ritmica irrompe in modo ossessivo a turbare la calma apparente e quello che si può definire il ritornello è preceduto prima da un solo di sax soprano, poi di chitarra, entrambi strepitosi nel dare un alone catartico a ciò che viene dopo.

The Wacthmaker inizia con una chitarra acustica arpeggiata dal sapore vittoriano, ritornando con più convinzione ad un palesissimo omaggio ai Genesis. E' una ballata dalle tinte nostalgiche che passa dalle parti di The Musical Box e Can-Utility and the Coastliners e di nuovo da quelle del Kevin Gilbert di Tired Old Man. Come da copione il brano si anima nell'intermezzo, nel quale si cela la stessa cadenza blues di Money dei Pink Floyd, con un Govan finalmente libero di sfogarsi in un assolo micidiale. La seconda parte cambia impostazione e diventa un'ariosa ballad per pianoforte, concludendosi in modo antitetico all'apertura: dura e quasi apocalittica, con chitarra distorta e mellotron angoscioso.
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Drive Home e The Raven That Refused to Sing sono invece dei brani più ordinari, delle ballate malinconiche che sembrano uscite dal repertorio dei Blackfield. La prima, che si trascina in maniera abbastanza moscia, raggiunge il suo apice nell'assolo finale di chitarra. La seconda, presentando un tema di piano con una progressione reiterata, dà la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande o la coda di una suite, andando anch'essa a crescere in un climax dalle sfumature estatiche e liberatorie.

Ho dimenticato di dire che il tema su cui è incentrato The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) sono vecchie storie di fantasmi e che la cover ad opera di Hajo Mueller (che per questa volta ha rimpiazzato all'artwork Lasse Hoile) è proprio bruttina. Ma non fa niente, ciò che importa è il contenuto.



Tracklist:

1. Luminol 12:10
2. Drive Home 7:37
3. The Holy Drinker 10:13
4. The Pin Drop 5:03
5. The Watchmaker 11:43
6. The Raven that Refused to Sing 7:57

http://stevenwilsonhq.com/

1 commento:

Anonimo ha detto...

Per quanto mi riguarda, forse la migliore uscita in chiave rock dell'anno passato. SW come non lo si setìntiva da tempo (o forse dal precedente GFD, al 2011 unico lavoro degno di nota del nostro nell'ultima decade. fino ad ora..)

luca